Il lavoro e la trappola del fare

Aprile 7, 2018

Culturalmente il nostro paese è intrappolato all’interno della cultura del lavoro, una sorta di mentalità del fare e del produrre. In un’epoca dove i lavori erano concettualmente più facili e dove lo sforzo era prevalentemente fisico era normale associare il lavoro al concetto di impegno e sacrificio. Fino a pochi anni fa, la maggior parte […]

Culturalmente il nostro paese è intrappolato all’interno della cultura del lavoro, una sorta di mentalità del fare e del produrre.

In un’epoca dove i lavori erano concettualmente più facili e dove lo sforzo era prevalentemente fisico era normale associare il lavoro al concetto di impegno e sacrificio. Fino a pochi anni fa, la maggior parte delle persone non avevano scelta, si studiava e poi conseguito il diploma o una laurea si andava in cerca di un lavoro, possibilmente in linea con quello che si era studiato. Poi raggiunta l’ambita meta del lavoro a tempo indeterminato ci si impegnava a edificare la propria vita mettendo in atto in maniera decisa i passi già percorsi dai propri padri, famiglia, figli, casa, vacanze, pranzi dai parenti ecc…

In quest’ottica il lavoro diventava un impegno giornaliero a cui occorreva far fronte, il più delle volte si cadeva in lavori con una discreta dose di ripetitività in cui la prospettiva di crescita era limitata a dei ruoli aziendali ben definiti, chiusi all’interno di un micro-cosmo.

Negli ultimi anni però le cose sono cambiate, per quanto si sia cercato di tutelare i classici modelli industriali tante cose sono mutate per sempre. Le nuove generazioni si sono trovate davanti dapprima una situazione di smarrimento in quanto i vecchi modelli stavano scomparendo e toccava al loro crearne di nuovi – in un mondo incapace di accettare il cambiamento come una opportunità.

La politica si è riempita la bocca di paroloni, quali lavoratori precari, work experience (alias lavoro gratis), riqualificazione professionale e chi ne ha più nel metta.

Ma la realtà dei fatti è tutt’altra. Un problema è quasi sempre una soluzione che ha smesso di funzionare: le vecchie generazioni devono smettere di difendere il loro amato modello industriale e permettere alle nuove generazioni di cambiare il mondo attraverso modalità lavorative del tutto differenti, dove al centro ci sia la persona, le sue competenze, le attitudini che lo caratterizzano e soprattutto le sue aspirazioni.

Probabilmente siamo davanti ad una sfida molto più ardua che in passato, la quale richiede un livello di preparazione e soprattutto attitudini molto ricercate – una sfida in cui conterà sempre meno l’estrazione sociale della famiglia di provenienza, il favore dell’amico od il grado di conformità agli standard imposti dalla società, in quanto la classe dirigente di oggi non è neppure in grado di comprendere cosa facciano gran parte delle figure professionali che si stanno affermando.

Per aprire le porte al cambiamento occorrerebbe però cambiare dall’alto alcune cose:

  • La scuola non dovrebbe più preparare al lavoro – ma mettere nelle condizioni lo studente di far emergere le proprie attitudini personali.
  • Dovrebbe essere sradicata dalla mente delle persone la cultura del fare, del produrre e del guadagnare. Le persone dovrebbero essere liberate dalla cultura del “lavorare per i soldi” – il lavoro dovrebbe diventare una espressione di sé stessi – e non un sacrificio ricompensato con uno stipendio.
  • Le aziende produttive dovrebbero investire sempre di più sulle risorse umane, trovando sistemi premianti che portino a far corrispondere la crescita dell’azienda alla crescita dell’individuo – una sorta di socializzazione dell’impresa – nella quale al centro ci sia la persona e non lo sfruttamento del tempo e del lavoro di un essere umano per la capitalizzazione dell’impresa.
  • Bisognerebbe smettere di demonizzare il cambiamento – qualsiasi sistema vivente tende all’omeostasi – questo significa che verranno creati nuovi equilibri più funzionali solo quando saremo riusciti a spazzare via i vecchi equilibri.
  • I trentenni di oggi dovrebbero essere considerati adulti e non dover far la voce grossa, vestirsi da pinguini o fingersi più grandi della loro età, solo per impressionare una classe dirigente attempata che li reputa troppo giovani per ricoprire incarichi di responsabilità.

 

Speriamo un giorno, quando anche noi saremo diventati custodi del passato, di trovare la forza di lasciare spazio ai giovani di domani, affinché possano cambiare il mondo.

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    Esperto di comunicazione interdisciplinare.

    Consulente con oltre 20 anni di esperienza in ambiti manageriali, comportamentali e di vendita. Digital Marketing Strategist nell’ambito della ideazione, coordinamento e realizzazione di progetti di Marketing Digitale.